Quella volta che è stato umano

Trentacinque anni sono trascorsi il 3 novembre del 2020 da quel pomeriggio di Napoli-Juventus. La punizione che Tacconi sapeva di poter parare perché tra il piede di Maradona e la barriera bianconera non c’erano i metri sufficienti affinché El Pibe de Oro calciasse direttamente in porta e trovasse il gol. Ma questa considerazione è per gli esseri umani e Diego è sempre stato a metà tra i comuni mortali e le divinità. D10S umano, è stato definito da qualcuno e nel corso degli anni lui stesso non si è mai troppo impegnato a nascondere o mostrare un lato piuttosto che l’altro. Perché tutto si può discutere, danneggiare e giudicare ma la pelota no, la pelota no se mancha. E lui l’ha così rispettata da valorizzarla con ogni prodigio possibile, superando aspettative e possibilità.

E allora quel pomeriggio di trentacinque anni fa non ci sarebbe stato spazio tra un uomo e la barriera, ma Diego poteva tutto e potè annullare anche le leggi della balistica. Forse, la punizione più bella della storia del calcio non solamente per il gesto tecnico che l’ha accompagnata, ma anche per l’incredibilità della sua riuscita. Il San Paolo esplose come se l’avesse già maturato prima di vederlo battere in rete, quel gol. Con Maradona tutto era possibile e, a distanza di tempo, lo confermano le vicende che coinvolgono Diego.

L’ex campione argentino è stato ricoverato a inizio settimana in una clinica di La Plata a causa di non ben chiariti problemi neurologici, prima dell’operazione di ieri (martedì, ndr). Si era pensato alla depressione e a possibili conseguenze di un sovraccarico di alcol nell’organismo. In realtà un’edema nella parte sinistra del cervello a causa di un trauma cranico conseguito a un incidente domestico. Questo quanto raccontato dal parterre medico e confermato poi dal dottor Sebastián Sanchi, che con successo l’ha operato a Buenos Aires.

È così fragile l’anima di Diego che è più cristallina dell’efficacia di un suo tocco. Si stanca di tanto in tanto di essere anche sé stesso, e allora decide di prendersi una pausa, allontanandosi da un mondo che continua a pulsare intorno a Maradona e fa preoccupare tutti.

Da Villa Fiorito a Beirut, tutto il mondo con il fiato sospeso. Fanatici di Diego che hanno acceso ceri ad ogni santo e dedicato più di una preghiera: più importante di ogni cosa. Diego deve esistere, perché se non c’è lui, svaniscono storie che non sono pronte a diventare leggende sbiadite. Una folla di tifosi, poi, è arrivata fin sotto alla Clínica Olivos per formare il più forte dei cortei di sostegno. L’autombulanza è stata scortata fin dai primi momenti e si è atteso fin a tarda serata per il responso dell’operazione. Lacrime e ricordi condivisi nel più unificante dei momenti, in un anno che ci vuole lontani oltre che distanti.“Diego soffre di stress emotivo”, perché il peso del mondo pare averlo sempre portato sulle spalle al punto di lottare parimenti contro la FIFA mentre spalleggiava Cuba: ogni lotta di dignità e verità per lui è valsa. Sembrava riuscirsi a liberare di ogni macigno soltanto spostando il cervello dalla testa alle gambe. La sfera di cuoio come contenitore di mondi paralleli, dove potersi spogliare della fragilità dell’uomo e diventare un dio.

Tutto è in discussione, ogni cosa sembra passeggera, marchiata dal vestigio del tempo che non perdona. Per Diego è sempre bastato che restasse in vita il rettangolo verde dove poter calciare con un’arancia, facendo ciò che ai più era complicato o impossibile fare col pallone. Lo disse Bagni, parlando di Maradona.

Ma caro Diego, noi non potevamo essere pronti a tutto ciò e per una volta abbiamo assorbito i tuoi superpoteri e ti abbiamo trattenuto qui. In fondo, è stata una sciocchezza. Tu hai fatto di più: vallo a dire all’Inghilterra.

di Sabrina Uccello


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Il successo felice

Sono uno specialista dei fallimenti e so perfettamente che si perde il consenso quando finisce il successo. Ma c’è gente di successo che non è felice e gente felice che non ha bisogno del successo. Il successo è un’eccezione, non un continuo”.

Si è iscritto da solo Marcelo Bielsa nella sezione principale del capitolo dei fallimentari. Che non è la stessa cosa di falliti. Il successo non è mai stata la sua ossessione, bensì lo sono la ricerca di una perfezione matematica che, secondo lui, è contenuta negli schemi del gioco, per gli altri, più semplice al mondo: il calcio. Non insegue l’éxito se non col solo scopo che il suo arrivo possa in qualche modo confermare la giustezza delle sue idee. Ma più che idee si tratta di ideali e il successo è così vuoto di leggi meritocratiche e imperturbabili che in sé non prova assolutamente nulla. O forse sì, prova il contenuto di un vecchio adagio.

Tutto arriva, per chi sa aspettare e il tempo è gentiluomo, qualche volta in ritardo, ma sempre impeccabile.

Nel 2018 El Loco firma un biennale con i Leeds United, squadra militante in Championship. Durante la prima stagione, la formazione riesce a restare in zona promozione quasi per l’intero campionato. Si ferma al terzo posto, senza riuscire a superare i play-off. Non mancano lo sdegno e la delusione, soprattutto per la circostanza che impedisce il passaggio in Premier League: lo scorso aprile, infatti, i Leeds sfidano l’Aston Villa. Klich mette a segno un gol dopo essersi rifiutato di buttare fuori il pallone, mentre uno degli avversari è rimasto a terra per infortunio. Bielsa non ci pensa due volte e chiede dalla panchina di restituire il gol. Il Leeds praticamente subisce il gol segnato, che obbliga alla sfortunata roulette dei play-off.

Bielsa ordina di far segnare l’Aston Villa

La squadra di Bielsa fallisce l’appuntamento, la squadra è disorientata e provata da un gesto di Fair Play considerato poco giustificabile e comprensibile, poiché ha praticamente messo una pietra sulle speranze di compiere il passo definitivo. Ma a meravigliarsi è solo chi Bielsa non lo conosce fino in fondo: rinuncerebbe a tutto, ma non ai suoi principi.

Non è uno che predica bene e razzola male, e forse è anche per questo se al primo banco nella classe dei suoi alunni siede Pep Guardiola, se uno stadio gli è intitolato da vivo e se sul Bielsismo sono stati scritti trattati, libri e manoscritti, fino quasi a divenire una scienza universitaria.

Un equilibrio sopra la follia. 

Sarebbe facile ridurre a ciò le teorie di Bielsa alla pari delle sue ormai ben note arrampicate sugli alberi per studiare i migliori schemi che, attenzione, sono 29 e non di più. Tuttavia, il suo Leeds nella stagione che sta volgendo al termine in realtà è partito da un’organizzazione ben precisa. Pressing ultra-offensivo, a uomo. A giudizio di molti, un po’ démodé o tipico delle squadre che devono salvarsi la pelle. In verità è una strategia per mantenere il baricentro alto e approfittare dell’errore dell’avversario in fase di costruzione, per ripartire e cercare la porta opponente. Un calcio verticale, che parte da un inusuale 1-4-1-4-1, che ha generato il 57% del possesso palla di media in stagione. Sono 70 (alla data odierna, ndr) i gol segnati e 34 quelli subiti. Un dato che spacca in due la realtà e allontana dal pregiudizio di un calcio spregiudicato e quindi inefficace. 

Da 16 anni il Leeds non riusciva ad arrivare in Premier League e aveva stabilito il suo record di punti nella stagione 1989-90. A luglio 2020 le cose sono cambiate: con gli attuali 87 punti Bielsa riporta The Whites nel massimo campionato inglese e lo fa senza necessità di abbassare la testa di fronte alla sua proposta di gioco o alla straziante delusione per la stagione precedente. Prende un filo, El Loco, e lo distribuisce intorno alla sua vita secondo il metodo più congeniale. Senza rubare né sottrarre.

Allora tornano a fare eco le sue dichiarazioni forse più famose, quelle alla squadra del Marsiglia nello spogliatoio, quando ne era allenatore: 

“È difficile accettare l’ingiustizia, pero ascoltate quello che vi dirò: se giocate come avete fatto oggi, fino alla fine della stagione, avrete il premio che meritate. Niente vi rasserena perché avete dato tutto in campo, lo avreste meritato e non l’avete ottenuto. Accettate l’ingiustizia, che alla fine tutto si equilibra. Se giochiamo come abbiamo fatto, sicuramente avrete la risposta che meritate. Anche se vi risulta impossibile, non reclamate nulla, ingoiate il veleno, fortificatevi”.

Bielsa divide l’opinione pubblica: chi lo ritiene un sognatore, un illuso sopravvalutato. Chi un genio incompreso, che ha saputo dire di no quando lo riteneva giusto. Quando, per esempio, il Lille decide di esonerarlo a causa di un viaggio in Cile senza autorizzazione per far visita a un amico malato terminale.

Non ha vinto tanto, con l’Argentina un solo oro ad Atene 2004. Ma è chiaro: non è il successo la sua ambizione, bensì lo è la giustizia, il risultato finale che non ha dovuto piegarsi, la bellezza di un’idea che si compie in campo, la perfezione di un movimento studiato e allenato. Se questi fattori possono portare al successo, allora l’ambizione di arrivarvi, vale. Altrimenti è vuota ed estemporanea.

Il calcio dello spettacolo di una proposta è di Bielsa, mentre della gente è quello della vittoria. Lui lo sa e allora ha compreso e perdonato i tifosi del Leeds, che l’anno scorso avrebbero voluto vederlo andar via, e li ha accolti a casa sua, a braccia aperta. Concretamente.

Non ha più la velleità di essere capito, ma solo di essere lasciato stare. Lasciato stare ai suoi fogli, i suoi paradigmi, le sue certezze incrollabili e la dannazione per gli errori. La ricerca e l’audacia, il compromesso e il compromettersi per una causa. La nobiltà di un’identità che non si può scuotere.

E tutto questo sarà per la prima volta sui maxi-schermi del campionato più avvincente al mondo, la Premier League.

Bielsa ha vinto o l’abbiamo fatto noi?

di Sabrina Uccello


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Il tempo di ogni possibilità

Trent’anni fa per qualcuno la notte più bella della vita. Pensa a Sergio Goycochea. Per qualcun altro, la peggiore di sempre. Pensa ad Aldo Serena, per esempio.
E per Napoli invece?

Era il 3 luglio del 1990, quando la Nazionale italiana ritenuta da molti la più forte di sempre, lasciava l’Olimpico e si trasferiva allo Stadio San Paolo. Per la prima volta dall’inizio dei Mondiali casalinghi, lasciava Roma.
Per tutto il tempo del mondo che racchiude un pallone da calcio, resterà l’incognita di cosa sarebbe successo se la partita fosse stata in un campo neutrale.

Non poteva esserlo, infatti, quello di Fuorigrotta, passato alla memoria storica come il tempio di D10S.
Parafrasando Diego, non si poteva chiedere ai napoletani di scegliere da che parte stare se bisognava compiere una scelta univoca. Dalla parte dell’Italia, in fondo, nessuno quasi li ha mai voluti.
Campioni del Nord Africa, vennero definiti una volta gli azzurri napoletani. Ed anche così, non è completamente vero ciò che la leggenda tramanda.
Non è vero che non c’era nemmeno un coro in favore dell’Italia di Azeglio Vicini. Una parte di stadio si sentiva il tricolore cucito addosso, ma la stragrande maggioranza non potè che scegliere di stare dalla parte di chi dalla sua è stato fin dal primo giorno, scendendo da una qualche nuvola per appoggiarsi sullo stesso manto verde degli esseri umani.
Maradona, che guardò sempre gli occhi dell’avversario e mai la monetina, si avvalse di Napoli, sua alleata principale, per eliminare dai giochi un’Italia, alla quale bastava l’ultimo passo per arrivare in finale. E per vincere un Mondiale, che avrebbe comunque meritato.
Era ancora lui il leader dello spogliatoio Albiceleste, ma non era più il Maradona brillante visto in Messico. Aveva bisogno della sua gente, da solo non ce l’avrebbe fatta.
Uno per tutti, tutti per uno. D’altronde, funzionava così fin dal luglio del 1984.
27,5 milioni di spettatori, con uno share dell’87,2%: nella storia della televisione nessun altro evento calcistico ha mai raggiunto gli stessi numeri.
La più grande manifestazione mistica e concreta di questo sport in un campo per forza di cose rimasto divino.

Al gol di Caniggia esulta Diego,
mentre Baresi si arrabbia.

Gli azzurri vincono il Gruppo A, battendo Austria, Stati Uniti e Cecoslovacchia. Poi battono l’Uruguay agli ottavi e l’Eire ai quarti. L’attesa della finale dell’8 luglio aumenta e sarebbero cambiate le cose se l’Italia ci fosse arrivata. Sarebbe cambiata anche la storia dell’Argentina, ma non quella di Napoli. Quella sarebbe rimasta casa di Diego e nessun italiano avrebbe mai potuto raccontare la stessa sensazione. Probabilmente l’immagine incancellabile resterà quella di Toto’ Schillaci, vera scoperta di quell’edizione dei campionati del mondo.
Tuttavia, si gioca in porta il 3 luglio.

Nei 90’ nessuno s’impone: è 1-1 tra Italia e Argentina. Schillaci da una parte, Caniggia dall’altra. I padroni di casa si sentono già al sicuro: li attende la roulette dei rigori, ma Walter Zenga era imbattuto prima di quella sfida e considerato da anni il migliore al mondo. Dall’altra parte c’è Sergio Goycochea, del quale si è imparato a scrivere il cognome solo dopo quella sera.

Passerà nella mente di tutti la sua immagine di killer delle Notti Magiche, l’ultimo 45 giri di successo prodotto dall’Italia. Goycochea era supplente prima del 3 luglio, convocato da Bilardo più per romanticismo che per necessità. Insieme a Pumpido, infatti, il Ct voleva ricomporre la coppia di estremi difensori che aveva fatto le fortune del River Plate. I due giocatori si erano separati da poco, con Goycochea trasferitosi in Colombia, ai Millonarios. Proprio quell’anno il campionato nazionale era terminato in anticipo, sospeso e poi annullato a causa della morte dell’arbitro Àlvaro Ortega, commissionata dal narcotrafficante Pablo Escobar.
Tuttavia, il San Paolo è un luogo un po’ magico e un po’ stregato. Già condannato da diversi episodi, Pumpido lascia la Nazionale per un infortunio che gli varrà la frattura di tibia e perone.
Addio Mondiali.
Sembrava questo il destino del portiere e anche quello dell’Albiceleste, poco speranzosa quando in campo entra Goychocea a fronteggiare i rigori per l’Italia.

Donadoni fallisce il rigore:
inizia lo show di Goyco

“Se un rigore viene calciato negli ultimi 60 centimetri della porta è imparabile. Se è al di qua degli ultimi 60 centimetri, si può parare”.

Questa è la teoria di Goyco sui rigori. Se l’avrà davvero applicata quella notte, forse, non si saprà mai.
Intanto, 4-5 per i sudamericani.
Gli argentini segnano tutti, per l’Italia Baresi, De Agostini, Baggio. Donadoni e Serena vengono frenati dalle parate di un uomo che sarebbe rimasto sconosciuto. La sua carriera, infatti, non proseguì alla grande: Paraguay, Brasile, Francia e il ritiro con il Newell’s Old Boys.
Dalla Nazionale, invece, sarà addirittura cacciato dopo un per 5-0 al Monumental con la Colombia e minacce di morte, sebbene avesse vinto nel frattempo due Copa América e una Confederations Cup.

Ma questa è stata un’altra storia, quello invece era ed è il San Paolo di Napoli, di Diego.
Dove tutto è possibile, dove si perde il sonno o si sogna per sempre una notte da eroi.

di Sabrina Uccello


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Non ci eravamo tanto amati

Ci eravamo tanto amati e adesso niente più?

Mauro Icardi, che sognava di scrivere il nuovo corso della storia dell’Inter, ha finito per riempire 124 pagine di gol in un libro da 219 volte totali e andare via.

In silenzio, dove silenzio non è dolore o pentimento, ma indifferenza e una dose di rancore ormai così dilazionato nel tempo da non potersi più distinguere nell’universo della rabbia. Non saluta Maurito, che si limita a condividere un’immagine con la casacca del PSG e a riempirla di un cuore rosso e uno blu per festeggiare la vita, con contratto fino al 2024, sotto le Tour Eiffel.

Il resto lo fa lei. Le ultime parole per salutare l’amata Milano, oggi meno importante nell’economia dello spettacolo della famiglia perché Tiki Taka ha chiuso i battenti e la casa del Grande Fratello altrettanto. Sotto il wandismo d’altronde i canali televisivi sono serviti per sostituire le parole di un capitano che fu che in prima persona non avrebbe potuto esprimersi allo stesso modo né avanzare trattative di calciomercato. Tra un’intervista sul divanetto bianco e uno show di luci da studio, si è giocato a rialzo sul rinnovo contrattuale del calciatore argentino, si è discusso della condotta etica dell’Inter rispetto al trattamento riservato al talentoso attaccante e ci si è puliti la coscienza per eventuali saluti.

Arrivederci e grazie.

Il telegramma lo spedisce tramite Twitter la voce ufficiale della dittatura Icardi. Maurito, tu pensa soltanto al calcio. E infatti, fin quando ha pensato al calcio, chi avrebbe mai potuto esprimersi negativamente su di lui? El niño del partido, l’ennesimo argentino destinato agli annali del club, all’Inter si presentò nel migliore dei modi: nella stagione 2014-15 con 22 reti è stato il capocannoniere del campionato di Serie A, a pari merito con Luca Toni, e si è ribadito al termine dell’annata 2017-18 raggiungendo con Immobile quota 29.

Dal calcio italiano verrà per forza ricordato: Maurito è il sesto calciatore più giovane ad aver raggiunto nel massimo campionato tricolore quota 100 gol. Per intenderci, davanti a lui soltanto Meazza (sì, ironia della sorte), Piola, Boniperti, Borel e Altafini.

Una storia da centravanti puro, che comincia il 14 settembre del 2013 sotto i migliori auspici: guidato in panchina da Walter Mazzarri, Icardi segna il gol del pareggio contro i rivali di sempre, la Juventus. A soli 22 anni l’argentino diventa capitano dell’Inter e due anni dopo, il 18 settembre, restituisce ai nerazzurri la gioia di battere i cugini del Milan in un derby. Non accadeva dal 2010. Una traiettoria di convincimento sempre meno confutabile della straordinaria capacità del calciatore, che si afferma ogni volta al di là degli infortuni e delle polemiche che, fin dal primo giorno, non mancano.

Il rapporto con i tifosi nerazzurri non riesce a stringersi definitivamente in un idillio d’amore e infatti quando in epoca Thohir viene pubblicata la sua autobiografia, “Sempre avanti, la mia storia segreta”, comincia la fine della storia tra Mauro e l’Inter. “Mi sento interista dentro e ho un legame forte con i tifosi, con tutti i tifosi, compresi quelli che in questi ultimi mesi mi hanno criticato. Per loro sfortuna si dovranno ricredere. Amo i colori della mia maglia. Neri come la notte, azzurri come il cielo e oro come le stelle”, cerca di chiuderla così ma il 13 febbraio del 2019 arrivano i titoli di coda, ancora supportati da Twitter.

L’Inter annuncia che Mauro Icardi ha smesso di essere il capitano della squadra nerazzurra, dopo il connazionale Javier Zanetti. La fascia passa al veterano Samir Handanovic. Una scelta che fa soffrire indubbiamente il calciatore, ma sulla quale ragiona forse poco: si alza un muro di silenzio, che distanzia definitivamente le due parti. Non c’è più campo da condividere. E infatti, a tal proposito, per la settimana Icardi non risponde alla convocazione per la gara a Vienna contro il Rapid, valida per gli ottavi di finale di Europa League. Un atto di insubordinazione, ennesimo secondo l’etica del club, che la società non può tollerare né nascondere dietro al nome di un infortunio, che sarà venduto all’opinione pubblica da quel momento.

C’eravamo tanto amati, giustamente. Perché Icardi deve tanto all’Inter, ma anche l’Inter a Icardi. Non si sono mai capiti fino e in fondo, sopratutto l’argentino e i tifosi, che da lui pretendevano il massimo ed evidentemente il calciatore la viveva come una pressione negativa, come un giudizio, un atto di sfiducia. Sono sue le reti nei derby, al fotofinish, le doppiette, le triplette, i gol che sono valsi Champions League ed Europa League. Questo non si può dimenticare, ma si può insabbiare: il ricordo sbiadisce, perché il calcio funziona a piccole dosi di gioia declassate davanti ai momenti di disappunto, delusione, tristezza e tradimento. Il calcio è fatto di moralismo e pagelle a fine partita, a fine, anno, a fine carriera.

Il 6 politico dopo Parma-Inter del 9 febbraio del 2019 per i sostenitori nerazzurri è stato l’ultimo atto di disamore di Icardi verso una maglia, che ormai stava sfilando dal corpo e dal cuore. Ha perso di credibilità e, oggi, allontanandosi definitivamente da Milano pare aver perso a titolo definitivo la sua seconda casa.Un argentino destinato ad essere ricordato per la facilità con cui sarà, incredibilmente, dimenticato.

di Sabrina Uccello


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Una cara sucia

Il dolore non sceglie e non si sceglie.

Non risponde alla domanda: “Perché a me?”. Piuttosto corrisponde all’interrogativo: “E perché no?”. Di nuovo, di nuovo a me. Non c’è una quantità limitata di prove da affrontare, non esiste una ricompensa finale. Esiste la vita, che non si spiega e resta avvolta nel mistero. É tutto quello che accade nel frattempo, tra intervalli di momenti che a volte si chiamano felicità, qualche altra volta stupore o soddisfazione. Ma esistono anche la tristezza e il disprezzo.

Esiste il dolore. Il dolore è un tatuaggio sbagliato, non voluto che porta addosso, vicino al cuore, ognuno dei ragazzi che nasce a Villa de Luján, a Parque Avellaneda. Deve fare i conti con le statistiche, secondo le quali soltanto due bambini su quattro possono farcela. A fare cosa? A non morire sparati o a non trascorrere i giorni in carcere. L’unico modo per rientrare nella selezione dei fortunati è avere talento. E infatti “juega bien el pibe”, il pibe di 19 anni che il 19 agosto del 2012 ha disputato il suo primo clásico: Racing – Independiente 2-0. Aveva pochi minuti nelle gambe, circa 180’, ma già la sensazione di avercela fatta. Ricardo Centurión non aveva ancora una storia, ma stava per scriverne una, perché “il calcio ti dà la rivincita. Sono nato senza avere nulla e me ne andrò senza niente, ma in campo do tutto”.


Leggi anche: ‘ El futbol de Sabrina ’ la pagina di Sabrina Uccello


Non ha mai avuto niente, nessun regalo El Wachiturro. Suo padre, infatti, è letteralmente saltato in aria quando Ricardo aveva circa cinque anni. Lavorava in una fabbrica che produceva fuochi d’artificio ed è finito per diventare una scintilla come le altre. Sua madre Centurión la vedeva a sprazzi, quando non era impegnata a guadagnarsi la vita per sé e i suoi figli offrendo la propria forza lavoro a qualsiasi hotel e casa del posto. Non ha scelto lui, nessuno può farlo, dove e come nascere e Centurión non è mai riuscito a lavarsi la faccia per cancellarsi il barrio dalle espressioni del volto, proprio lui che non è riuscito a farne una forza bensì la sua più grande debolezza.

Chi l’ha visto giocare, l’ha amato subito e col tempo ancora di più. Più gioca a calcio e più diventa cerebrale il suo modo di stare in campo, ma l’attitudine è inversamente proporzionale a quanto accade fuori dal rettangolo di gioco.Ce l’aveva fatta prima di tutti El Wachiturro a trionfare e affermarsi. Ha indossato la 10 del Boca Juniors, ha vestito la 22 de La Academia di Milito, ha scambiato il pallone con Mauro Camoranesi, un campione del mondo. Ma non è bastato, perché sopra e intorno a lui Centurión non riesce a distinguere nulla. Si adombra la vista di fronte alla sfida più grande: fiorire.

Nel 2014 il Racing torna a vincere un trofeo dopo 13 anni di astinenza. In panchina siede Diego Cocca e Centurión è il miglior calciatore del Torneo de Transición, dopo essersi trasferito senza successo al Genoa. Ci riprova a dare il salto tra il Saõ Paulo in Brasile, il Boca Juniors e l’ennesimo rientro al Genoa prima della seconda avventura al Racing Club.

Niente ferma Ricardo se non i limiti che dà a se stesso. Non riesce a sopportarsi e il punto più basso lo tocca a La Academia con Coudet in panchina. Nel febbraio del 2019, infatti, il tecnico lo richiama in campo contro il River Plate, dopo aver scelto di non schierarlo titolare. Il River stava vincendo per 2-0 e al momento del cambio, tra allenatore e giocatore c’è una discussione. Centurión allontana Coudet con un braccio. Un gesto che il Dt non gli perdonerà mai, fino a giurare che non allenerà più il Racing, qualora in squadra dovesse restare l’ex genoano. Ricardo viene mandato ad allenarsi con la primavera, cercherà di chiedere scusa al Chacho e scriverà persino un telegramma, ultima possibilità comunicativa che gli resta, ma non ottiene risposta.
Eppure un anno prima Víctor Blanco, presidente della squadra di Avellaneda, aveva avuto il coraggio di dire la verità, dopo l’ennesimo scandalo che aveva coinvolto Centurión, vedendolo per strada ubriaco alla guida.“La sua è una dipendenza, è malato e bisogna aiutarlo”.

Non ce la fa il Racing a salvarlo né il Messico. Ci stava riuscendo Heinze. L’ormai ex tecnico del Vélez ha salvato una squadra a soli 6 punti dalla retrocessione, portandola alla Copa Libertadores 2021. Un esperto in miracoli sportivi, ha accolto l’ennesima sfida, El Gringo. Gliela stava ripagando tutta Centurión. Lo scorso 4 febbraio in occasione della sua prima partita da titolare con la maglia de El Fortín, Ricardo mostra il meglio del suo repertorio: una rete in Copa Sudamericana contro l’Aucas, che la stampa definisce maradoniana. Un gol agli ecuadoriani che riaccende le speranze: dopo il possesso di armi, l’abuso di alcol, le notti in discoteca, i litigi dentro e fuori del campo, forse a 27 anni è finita la roulette degli eccessi.

Centurión è cresciuto e niente può fermarlo. Niente, se non il dolore.

Tra alti e bassi, tra la magia Xeneize e lo sventurato Atlético San Luis, c’è lei. C’è Melody Pasini, la fidanzata di Ricardo che di lui tutto aveva accettato. Non l’aveva vincolato a un contratto né aveva provato a rescindere dai sentimenti. Aveva accettato e mentre El Wachiturro faceva a cazzotti con chi potrebbe essere e chi non riesce a diventare, Melody lottava veramente. Era malata di cuore e a 12 anni aveva subito un trapianto, poi aveva preso a calci un cancro nel 2012 e aveva sopportato tre stent nel 2018. Una battaglia che proprio non voleva perdere, ma il dolore non lascia tracce e si ripresenta squallido, quando vuole. Era in auto Melody lo scorso 29 marzo e aveva ancora 25 anni, stava andando a casa dei suoi genitori, in piena quarantena. L’auto viaggia da sola perché il cuore si ferma. Arresto cardiaco, mentre è alla guida, da sola.

É morta così Melody, che le aveva vinte tutte ed era riuscita, l’unica, a stare vicino a Ricardo, a riportarlo in campo, a convincerlo che non fosse ancora finita. Così, mentre finalmente si stava schiarendo il tatuaggio del barrio, sul corpo pieno d’inchiostro di Centurión si apre una nuova ferita, l’autostrada della solitudine.

Non c’è mai un perché e non è mai giusto. Tra un gol e un tentativo trascorre la vita e nessuno se ne accorge. Passa aspettando il giorno giusto per rimettersi a posto ma il posto non si trova mai. Melody ha finito, è scesa dal ring, ma Ricardo non può: quel pibe cara sucia deve ripulirsi ancora. E questa volta, per davvero, sembra essergli rimasto soltanto un pallone.

di Sabrina Uccello


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Il calcio se ne frega

Il calcio se ne frega di quello che succede intorno.

Se ne frega perché il pallone rotola su qualsiasi superficie, ma la strada non è più in discesa. La linea è piatta e anche l’orizzonte ha cominciato ad assottigliarsi: non sappiamo dove e quando riaprirà uno stadio e torneremo a vedere una partita di calcio, tutti insieme. Seduti gli uni vicini agli altri, senza fare caso al braccio di chi ci urta. Non ci avevamo mai pensato al contatto fisico, o meglio alle possibili controindicazioni. Chi governa il calcio, poi, non aveva nemmeno pensato a un assurdo virus, intangibile ma onnipresente, come causa scatenante dello stop assoluto. Il calcio se ne frega, ma alla gente frega del calcio in questo momento e, sebbene si possano contare in modo smisurato i milioni di danni, si possono contare meglio le vittime del COVID-19. Numericamente saranno di meno, ma il valore di diritti televisivi, botteghini e sponsor non è nemmeno paragonabile per valore.

La verità è che tutto il mondo è paese e l’Argentina non rappresenta un’eccezione. Mentre il presidente Alberto Fernández, l’AFA e la CONMEBOL hanno preso del tempo per riflettere (chissà su cosa poi…), il passo più lungo della gamba l’ha compiuto il River Plate. L’intero corpo tecnico, i calciatori, i dirigenti hanno fisicamente chiuso le porte del Monumental e sbarrato ogni ingresso, rinunciando al match di Copa Superliga in programma con l’Atlético Tucúman, lo scorso 8 marzo. La squadra avversaria si era regolarmente presentata insieme agli arbitri e ad alcuni tifosi all’esterno del campo di gioco, ma quella non poteva essere una domenica qualunque. Rodolfo D’Onofrio, il presidente dei Millonarios, è stato anche accusato di aver compiuto una scelta politica molto più che etica, e in tanti hanno dubitato della natura della sua decisione, qualora il River Plate si fosse trovato a un passo dalla vittoria del trofeo. Eppure il River ha taciuto, ha chiuso ogni discorso con un comunicato e non si è ribellato di fronte a nessuna minaccia di squalifica piuttosto che di perdita della categoria. Lì fuori, se qualcuno non se ne fosse accorto, si sta combattendo una guerra decisamente più impegnativa contro un nemico sconosciuto e perverso.


Leggi il blog di Sabrina Uccello: ‘ El futbol de Sabrina


I calciatori hanno insistito affinché l’episodio aprisse gli occhi agli organi dirigenziali, che si sono arresi all’evidenza dei fatti troppo tardi. Come sempre, d’altronde. Ha ceduto il 12 marzo la CONMEBOL annunciando la sospensione, inizialmente per una sola settimana, di Copa Libertadores e Copa Sudamericana. Considerata la situazione, si è deciso di rinviare il ripristino delle attività a dopo il prossimo 5 maggio. Il 17 marzo, poi, l’annuncio ha riguardato anche la Copa América. La quarantasettesima edizione del torneo continentale sarebbe stata itinerante, tra Argentina e Colombia. L’appuntamento, alla pari degli Europei, è stato posticipato al 2021: 11/06-11/07. Tuttavia, ancora così si è atteso l’ultimo lavandino disponibile per lavarsi le mani da ogni responsabilità e scegliere il Ponzio Pilato meno convincente per cessare anche le attività interne al paese albiceleste. Mentre tutto il mondo si era già arreso alla propagazione del virus, l’AFA ha resistito, sottomettendosi all’inevitabile soltanto dopo i continui richiami del Ministro dello Sport e del Turismo. Matías Lammens a più riprese aveva richiesto la sospensione totale del calcio in ogni categoria fino al 31/03, includendo anche gli allenamenti delle squadre.

Decisiva è stata la voce del sindacato dei calciatori, Futbolistas Argentinos Agremiados, i quali avevano lasciato intendere da giorni che sarebbero stati disposti allo sciopero. L’inevitabile, comunque, è arrivato da sé. Da ieri sera (l’articolo è stato redatto il 20/03/20, ndr), l’Argentina è in quarantena. Segue i passi stanchi della Cina, dell’Italia, dell’Europa intera e si chiude nella sua quarantena. Ci sarà la polizia per strada a regolare il flusso del traffico e a reti unificate circolano messaggi di scongiuro a non uscire da casa, a combattere nella sicurezza delle proprie mura una battaglia dalla quale il mondo non sta ancora uscendo ed è già stato mortalmente ferito. Tutti i quotidiani nazionali hanno proposto la medesima prima pagina: “Il virus lo freniamo insieme, virilizziamo la responsabilità”. É tempo di riflettere, e sembra lontano anni luce il giorno di Maradona a La Bombonera e del suo bacio sulle labbra di Carlitos Tévez.

“Dio ci ha dato un’opportunità, ci ha detto del tempo per prevenire l’avanzata del virus. Tutti potranno uscire per le cose necessarie – ha dichiarato il presidente Alberto Fernández -, possono andare negli alimentari, ai supermercati, ai negozi vicini. Però, capiamoci bene, che da questa mezzanotte ogni cosa sarà controllata. Saremo assolutamente inflessibili. Questa è una misura straordinaria perché siamo in un momento eccezionale”.

Parole che fanno tornare con la mente al terribile passato senza libertà di espressione, movimento e pensiero. Ma il coronavirus non è un dittatore, è il più democratico dei mali: non compie distinzioni di alcun tipo. Non discerne e non può farlo nessun altro al posto suo: tutti insieme, perché insieme finirà bene. Non tutti l’hanno capito e sovvertire le regole sembra la via più facile per scansare il panico. Il calcio è l’antidoto principale a ogni paura, ma dura 90’ e questa volta lui se ne può fregare, noi no. Deve essere questo il gol del secolo, sarà questa la mano de Dios.

di Sabrina Uccello


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Il dolore ha perso

Se il dolore ha una misura, è quella della felicità che senti quando lo superi. O se sei meno fortunato, si misura nella capacità di attraversarlo, nonostante tutto.

Eduardo Salvio ha attraversato l’Europa. Dal Lanús all’Atlético Madrid nel 2010, diventando poi per nove anni il simbolo del Benfica. Con i lusitani è diventato un calciatore da 60 milioni di euro e i suoi dribbling ricordavano ai portoghesi quelli di Cristiano Ronaldo. Cinque campionati nazionali con le Águias e due Europa League con Simeone alla guida e in campo con Falcao, Godín, Juanfran… Un privilegiato, direbbe qualcuno. É durato undici anni il sogno di Toto nel Vecchio Continente. Ha provato a credere che vincere una coppa con il pubblico di Amburgo e Bucarest potesse essere il massimo.

Ma tu a La Bombonera ci sei mai stato?Nemmeno lui. E quale argentino non ha mai sognato La Doce gridare il proprio nome? Una telefonata fioca basta ad accendere in Salvio la decisione di rincasare. Chau Benfica, chau Europa. Era il 18 luglio del 2019 e l’Atléti lo cede agli argentini per 7 milioni di euro. Non avrà tatuato la data Toto, ma sua madre sì. Justina non ha aspettato altro che la chiamata giusta per rivedere Salvio la sera e accendergli la televisione in salotto per sintonizzarla su Dragon Ball. A qualcuno farà sorridere, ma il noto cartone animato giapponese è la vera passione di Toto, che in qualunque ritiro sia stato e prima di qualsiasi partita, ne ha sempre visto almeno un episodio. La prova evidente sono le sue esultanze: Boca – Godoy Cruz e il Bing Bang di Vegeta con il Gendi-dama di Gokú per sigillare la doppietta.

Tuttavia, l’ironia dura poco: donna Tota a inizio febbraio viene ricoverata e operata d’urgenza per un cancro al cervello. La notizia che tutti aspettano arrivi sempre a casa di qualcun altro. Un’operazione riuscita bene ma lunga nella riabilitazione. Justina porta da quel giorno una vistosa fascia intorno alla testa, che però non le ha bendato i sogni. Quando Salvio segna al Godoy Cruz, lei è in terapia intensiva ma non avrebbe perso quella partita per niente al mondo. Grida, esulta: il calcio è un antidoto a ogni dolore. Quella stessa notte, racconterà di aver sognato il Boca Juniors, squadra di cui è da sempre tifosa, vincere il campionato e ha visto se stessa entrare in campo in ginocchio. “Secondo te, non lo farò? Anche in barella andrò, se necessario”, ha detto poi sorridendo a Cómo Te Va.


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Anche perché prima o poi qualcuno avrebbe dovuto fermare Gallardo: “Mi piace come gioca ma è anche fortunato. Ora la gloria sta toccando a Napoleón, ma un giorno anche Napoleón sbatterà la testa contro il muro, eh. Nella vita si perde e si vince”. Maradona avrà fatto la sua parte: la parola di D10S è una sentenza. Il suo Gimnasia è stato ospite del Boca all’ultima giornata di campionato.

Il River, con un punto di vantaggio sugli Xeneizes, è stato accolto dall’Atlético Tucumán di Zielinski. Il destino era tutto nelle mani dei Millonarios, ma c’era troppa magia a La Bombonera e il bacio di Maradona a Tévez è stata la benedizione per ritornare campioni d’Argentina, dopo un anno di pausa. Diego ha aspettato che Carlitos gli si avvicinasse in panchina per dargli il bacio che gli aveva promesso, prima ancora si era abbassato per fare lo stesso col césped di quel campo tutt’intorno blu e dorato.

Al 27’ del secondo tempo, Matías Suárez del River ha sbagliato una rete in movimento dal dischetto e nel contempo El Apache non ha fallito il suo appuntamento con un tiro da fuori area.Il Boca batte il Gimnasia, pareggia il River Plate e late l’Estadio Alberto José Armando. Tutti gli occhi sono per Riquelme, al primo trofeo da dirigente del club di cui è leggenda, per Tévez, per Diego, per Russo, persino per Benjamín, nipote di Maradona e figlio del Kun Agüero… ma in campo scende anche Doña Tota. L’aveva promesso.

S’inginocchia ma non ha bisogno di una barella. Salvio fa lo stesso ed è l’abbraccio più bello al mondo. Si stringono, si commuovono, uno sussurra all’altro la propria felicità per quel momento fuori dal tempo.“E ora, può succedere qualsiasi cosa: ormai l’ho visto campione qui. Come avrei potuto mancare? Dopo undici anni è tornato in Argentina per vincere. Dovunque vada, lui porta alla vittoria”, è orgogliosa Justina. Così tanto lo è che nessuno nota la bandana, si scorge solo la maglia azul y oro e le lacrime di gioia foderarle gli occhi.

No, Tota, ora non può succedere qualsiasi cosa. Ora devi vincere tu, altrimenti per chi giocherà in Copa Libertadores il tuo Eduardo?

di Sabrina Uccello


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L’atto terzo

Diego Armando Maradona non vincerà la Superliga argentina alla guida del Gimnasia, ma resta lo spartiacque della stagione sportiva. Seduto in trono può essere l’arbitro o meglio l’ago che penderà a favore del River Plate o del Boca Juniors. Resta una giornata di campionato da disputare e i Millonarios hanno un solo punto di vantaggio sugli Xeneizes. Il destino è nelle mani della squadra di Marcelo Gallardo, ma l’ex Pibe de Oro dall’altro lato di Buenos Aires affronterà il Boca. E Diego, si sa, bostero è nato.

Tutto diventa della forma che Maradona preferisce, ma se esiste un antidoto ai suoi mezzi divini, si chiama Juan Fernando Quintero. In due stagioni (dal 2018) il colombiano ha collezionato soltanto 10 reti con la maglia del River Plate. Pochi ricordi da quantificare, ma Juanfer Quintero è il tatuaggio che non può mancare. Il suo nome appena risuona fa compiere un viaggio, dal quale nessun tifoso del River Plate è mai rientrato, direttamente a Madrid. Era la notte del 9 dicembre 2018. Al Santiago Bernabéu fu sottratta l’anima blanca per apporre sugli 80.000 sediolini a disposizione la banda roja che caratterizza i Millonarios. La finale del secolo, la più folle (anche in accezione negativa) che si sia mai disputata. La finale di Copa Libertadores che avrebbe dovuto stabilire nei tempi dei tempi la paternità del River sul Boca o viceversa. Il 2-2 della Bombonera manteneva relativamente tutto aperto: quale tifoso del River Plate avrebbe d’altronde potuto definire “casalingo” un match disputato dall’altra parte dell’oceano? Nessuno. Quintero sì.

Il colombiano entra in campo al 77’ e definisce un assist e la rete del trionfo oltre i titoli di coda, era il 109’ del supplementare. Se Madrid avesse potuto comprimersi in una bolla ed esplodere, l’avrebbe fatto e sarebbe rimasta l’immagine di Juanfer che poggia sulle spalle la bandiera della Colombia e si cuce addosso l’orgoglio di averla difesa, completando un giro di campo. Si diventa immortali così, un giorno qualsiasi nel posto dove di solito (ironia della sorte) a segnare è James Rodríguez, il calciatore del quale Quintero avrebbe dovuto raccogliere l’eredità migliorandola. 3-1 e comincia l’incubo per il Boca Juniors, che è proseguito fino all’attuale stagione. Di nuovo di fronte, dopo poco più di un anno, a litigarsi una coppa e a difendere la propria superiorità sull’avversario. Per un anno e quattro mesi il Boca Juniors ha potuto dormire sonni tranquilli: lo scorso 17 marzo, in occasione della sfida contro l’Independiente, Juanfer si è accasciato a terra. Lacrime e certezze: rottura del legamento crociato.

Sette mesi fuori, un’agonia infinita. Fuori dal campo il tempo si dilata, raggiungendo estensioni inedite. Tanto sorprendenti, come la rete che soltanto un mese prima il colombiano aveva messo a segno contro il Racing Club. Un calcio di punizione dalla metà del campo che finisce perfettamente sotto i centimetri che seguono la traversa. La rete è talmente spettacolare che viene immediatamente candidata al Puskas 2019. Quintero finirà sul podio: davanti a lui un certo Leo Messi, mentre il gol dell’anno per la FIFA sarò poi quello dell’ungherese Dániel Zsóri. Dopo quella gioia, cade il vuoto, cade l’assenza. Sono 208 giorni senza calcio che si traducono in un anno e cinque giorni senza segnare. Ci aveva provato dal dischetto lo scorso 9 dicembre, ma la maledizione del River Plate ha portato la squadra di Gallardo a fallire quattro centri dagli 11 metri. Una congiunzione di fattori che aveva finalmente rasserenato gli Xeneizes: al River Plate mancava un alleato.


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Mai affettarsi a scrivere le conclusioni di una storia: è il 29 febbraio, Pinola lascia il campo nel secondo tempo col Defensa y Justicia dettando legge al Montumental con una rete di vantaggio sui padroni di casa, messa a segno da Juan Martín Lucero. Gallardo, forse senza crederci troppo, gioca la ultima cartuccia e manda in campo Quintero, ancora lui. Lo abbraccia all’intervallo quasi per benedirlo o per chiedere lui al colombiano d’intercedere in qualche modo. Perdere avrebbe dato al Boca Juniors due punti di vantaggio in classifica e da quel momento in poi il River Plate avrebbe smesso di essere padrone del suo destino. Nonostante le illusioni della matematica, gli Xeneizes sarebbero andati incontro al Gimnasia con la serenità di chi sa di avere un prezioso vantaggio dalla propria. De la Cruz subisce fallo in area di rigore e Juanfer si presenta dal dischetto, senza il peso dell’ultimo errore.

Quintero non ha bisogno di guardare Unsain, perché il pallone che calcia non guarda la porta, ma guarda la traversa. Punta lì, ancora lì sotto e il portiere non può volare dove non c’è spazio per le sue mani. Conclusione pericolosamente perfetta. Il River risale in testa alla classifica. Tutto torna come prima. Le orbite degli astri riprendono il movimento che avevano sospeso. Il Boca adesso lo sa: per l’ultimo atto potrà servire un trono a La Bombonera per ospitare Maradona, tuttavia i Millonarios avranno comunque un punto e un Quintero in più. Parola al destino: atto terzo.

di Sabrina Uccello


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Io non ho paura

“Eravamo in USA per la Copa América e Pastore e il Pocho Lavezzi vennero da me. Avevano giocato con Ibrahimovic al PSG ed erano amici.
‘Stai attento perché se ti fai vedere debole e stai zitto, ti mangia’.
Ricordo, allora, una partita di Europa League, era il 2016-17 e fummo campioni. Stavamo giocando in casa contro il Rostov, pareggiavamo.
Mi arrivò il pallone e invece di passarlo a lui, lo passai a Paul (Pogba). Allora Ibra cominciò a urlarmi contro, mi disse di tutto sia in spagnolo che in inglese.
Io lo presi e gli dissi: ‘Che ti succede? Chiudi la bocca… A me non mandi a quel paese’.

Continuammo a insultarci, fino a quando tornammo negli spogliatoi a fine primo tempo. Pensai che mi avrebbe ucciso. E’ alto due metri ed è un karateca. Decisi di affrontarlo per primo, perché mi avrebbe ammazzato. Lui si sedette proprio di fronte a me e io cominciai a slacciarmi gli scarpini. Lui arrivò arrabbiato e io gli dissi all’improvviso: ‘Chiudi la bocca e non rivolgerti più così a me’. Comiciammo a litigare ma nessuno diceva niente.
Intervenne Mourinho e ci zittì.
Da quel momento gli inglesi ebbero terrore di me, pensando che fossi pazzo. Alla fine, il giorno dopo, mentre facevamo colazione, arriva qualcuno che mi prende per il collo, da dietro. Mi giro ed era lui, Zlatan.
Rideva.
‘Sei un figlio di pu***na, non puoi dirmi quelle cose davanti a tutti!’. Ci mettemmo a ridere, siamo sempre stati amici.”

Marcos Rojo si è presentato da solo, raccontanto in TV l’episodio che l’ha visto protagonista con Ibrahimovic ai tempi del Manchester United.
L’argentino non ha paura di niente, figurarsi del campione svedese. In campo si è sempre dovuto difendere, non solo dagli avversari: principalmente dai giudizi. Quando ai Mondiali brasiliani venne convocato da Jorge Sampaoli la stampa e la critica generale ritennero pazzo il Ct argentino. Rojo era arrivato allo United, scalando la vetta Spartak Mosca e Sporting Lisbona, ma nessuno credeva lo meritasse per davvero.
Col peso del pregiudizio sulle spalle e da difensore, segnò di rabona contro la Bosnia, di ginocchio contro la Nigeria e fece girare la testa ad Arjen Robben quando sfidò i Paesi Bassi.
Fu Marquitos il migliore, probabilmente, di quella gestione tecnica. Ma nessuno lo ammise mai.

D’altronde Rojo è sempre stato l’uomo di Alejandro Sabella e da maestro a carnefice il cammino è stato breve anche per lo storico allenatore. Nel 2010 sedeva proprio lui in panchina quando, contro l’Arsenal, l’Estudiantes vinse con un gol la sfida che lo consacrò campione d’Apertura.
Fu l’ultima volta in cui Rojo indossò la maglia del Pincha. Aveva 20 anni e andò in Russia, senza mai aver debuttato nello stadio del León.
Perché l’1 y 55 venne barricato nel 2005. Sul suo terreno di gioco l’Estudiantes aveva praticamente vinto ogni cosa. L’Estadio Jorge Luis Hirschi era fortezza dei padroni di casa e terrore di ogni avversario, proprietà del club che chiuse l’impianto in occasione clásico platense con una rete di José Luis Calderón.


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Quel giorno in campo c’era anche Marcos Rojo, che sognava di fare con i Pincharrata almeno la metà di quanto fatto in carriera dal suo idolo, il Ratón Ayala.
Non ci riuscì mai: era una raccattapalle nell’occasione, un quindicenne sognatore delle Giovanili dell’Estudiantes, che festeggiava appena i suoi cento anni di storia e le mille gare professionistiche.
“In quei momenti pensavo tra me e me, e dicevo ‘che voglia di giocare qui, un giorno prima o poi mi toccherà’. Poi, sono andato in Europa e non ci sono mai riuscito. Per me, questo non è un ritorno. Si tratta di un sogno. Giocherò nello stadio dove mai ho potuto, ed è anche bellissimo”.
Già, perché quest’anno l’1 y 55 è tornato ed è il primo stadio ergonomico al mondo e il più tecnologicamente avanzato. A casa è tornato pure Javier Mascherano e Rojo vuole che al suo Rosario Central faccia capolino di nuovo anche Ángel Di María.
El Fideo ha pensato a uno scherzo quando Rojo gli ha annunciato che avrebbe vestito di nuovo la maglia dell’Estudiantes. Perché tornare a casa proprio adesso? Quando avrebbe potuto andare a Monaco, come i suoi agenti gli avevano proposto.

“Ti rendi conto? Vivere a Monaco”, Marquitos non li ha nemmeno ascoltati. Ha solo chiesto loro di non recapitare nessun’offerta allo United, per paura che l’accettassero e non gli permettessero di abbassarsi l’ingaggio, abbassare il valore del cartellino e tornare finalmente a casa.
Quando il fisico è ossessionato dagli infortuni, quando le sfide si fanno meno serene, quando gli obiettivi cominciano a mutare, si sente nostalgia di casa. Marcos non voleva essere altrove, anche perché a La Plata c’è lo stadio più bello al mondo, che ha riempito gli occhi di un bambino delle giovanili con un ultimo sogno rimasto in sospeso.

di Sabrina Uccello


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Per tutta la Gloria del mondo

‘Non è finita finché non è finita Racing Club-Independiente de Avellaneda.’

Mentre la Superliga volge al suo epilogo con un nuovo duello tra River Plate e Boca Juniors per la vittoria del campionato, la diciannovesima di ventitré giornate è arrivata. C’è ancora chi si divide tra il sogno di centrare la Copa Libertadores e la realtà che predice la Copa Sudamericana.
Tuttavia, oltre la leggenda dei sette gatti seppelliti e il manichino della Puta violada, esiste il Cilindro.

Fino allo scorso ottobre Sebastián Beccacece ci viveva a 300 metri, cercando di riportare ai vecchi fasti l’Independiente nel Libertadores de América. Missione fallita, anzi conclusa con una rescissione consensuale del contratto: nessun obiettivo raggiunto.
Perché allora stare ancora insieme?
Ma Becca non ha avuto bisogno di nessun trasloco, è bastata una passeggiata più avanti per essere di casa ancora ad Avellaneda. Il problema è che il rosarino, subentrato a Coudet, in 3 match ha raccolto soltanto tre pareggi (Atlético PR, Atlético Tucuman e Argentinos Juniors). Difficile che il clásico possa decidere già le sue sorti, ma nulla è da precludere.

El Clasico de Avellaneda


Intanto, molto probabilmente dalla sua il Racing avrà il talismano dei derby: Lisandro López. L’Independiente è la vittima preferita dell’attaccante argentino che gli ha segnato sei volte in dieci incontri.
“Que de la mano de Licha López todos la vuelta vamos a dar” intonano i sostenitori dell’Acadé quando in campo scende Licha. D’altronde quando vede rojo è capace di scene irripetibili: nel 2016, anno del suo ritorno in Argentina, López debuttò con una rovesciata. Allora il Racing era ospite dell’Independiente, ma Licha fu padrone del campo. La sfida terminò sull’1-1 con una rete d’antologia, che raccontò lo stesso delantero: “Né in allenamento né nelle giovanili né nel mio quartiere avevo mai calciato di rovesciata”.
D’altronde, c’è sempre una prima volta…

Racing-Independiente sarà la sfida tra el Capitan ‘Licha’ Lopez e il bomber ‘Chino’ Romero

Ne sarà una, per esempio, per Lucas Pusineri. L’allenatore è rientrato dal Deportivo Cali proprio per sostituire Beccacece sulla panchina dell’Independiente. Reduce dal pareggio contro il Boca Juniors e dal fiammante 5-0 contro il Rosario Central, il neo-tecnico dirigerà per la prima volta il clásico. Tuttavia, in materia ciò che sicuramente non gli manca è l’esperienza: da calciatore con a maglia de Los Diablos Rojos Pusineri ha affrontato dieci volte l’Academia e le statistiche sono abbastanza chiare.
Quattro sono state le vittorie, cinque i pareggi e una sola sconfitta. L’attuale allenatore dell’Independiente, inoltre, era in panchina in quel memorabile derby del 2005. Un giovanissimo Kun Agüero percorse tutto il campo a partire dalla sua metà, gambeteó tutti gli avversari che cercarono di frapporsi tra lui e il gol e finì per segnarlo. Una rete con la maglia numero 10 che lo consegnò alla storia del match (terminò 4-0) e all’Europa. L’anno successivo, infatti, fu quello del trasferimento all’Atlético Madrid.


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Chi quel giorno non c’era e non ci sarà nemmeno domenica alle 23:40 italiane è Pablo Pérez. Il volante di 34 anni di proprietà del Boca Juniors non s’intende con l’attuale dirigenza e ha deciso di rescindere il contratto con l’Independiente. Al tramonto della carriera l’attende il ritorno a casa: il Newell’s Old Boys l’ha già annunciato come nuovo rinforzo per ciò che resta della stagione e magari anche qualcosa in più.

Queste le speciali camisetas che verranno indossate nel clasico.
C’è il logo che rappresenta el barrio de Avellaneda, capital del futbol.

Chi vincerà? Per il presidente Víctor Blanco il suo Racing Club la spunterà ma la classifica dice che tra le due squadre ci sono soltanto tre punti di distacco: la Acadé è decima a 28 punti, mentre l’Independiente 13° a 25 totali. Ma un clásico si gioca per la gloria, per la storia, per la supremazia. Intanto ad arbitrare sarà Patricio Loustau, noto e sfegatato tifoso del Racing. Una decisione che ha fatto storcere il naso ai rivali e che apparecchia già la scena per tutte le polemiche del mondo…

RACING: Gabriel Arias; Iván Pillud, Nery Domínguez, Leonardo Sigali, Eugenio Mena; Walter Montoya, Mauricio Martínez, Leonel Miranda, Matías Rojas; Héctor Fértoli y Darío Cvitanich o Lisandro López.

INDEPENDIENTE: Martín Campaña; Fabricio Bustos, Alan Franco, Alexander Barboza, Juan Sánchez Miño; Braian Romero, Lucas Romero, Domingo Blanco, Cecilio Domínguez; Leandro Fernández y Silvio Romero.

di Sabrina Uccello


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Un’ora e sette minuti

Un’ora e sette minuti, 488 km.
Questo separa la città francese di Nantes dall’inglese Cardiff. Cosa può succedere nel frattempo? Qualunque cosa.

La peggiore è accaduta il 21 gennaio del 2019 a bordo del Piper PA-46 Malibu del 1984. Ci era salito Emiliano Sala, dopo aver scritto su Instagram (e quanto sa essere bastarda anche l’ironia del fato…): “L’ultima, ciao Nantes”. L’attaccante argentino si riferiva all’ultima foto insieme al gruppo di compagni coi quali aveva condiviso lo spogliatoio e il miglior risultato possibile: essere più avanti anche di Kylian Mbappé nella classifica dei marcatori del campionato.

Invece, diremo poi che quella frase era l’ultima di sempre. Dopo, Sala non ha avuto più voce. Ha avuto solo una tastiera per digitare l’ultimo messaggio mentre l’aereo crollava a picco senza direzione nel Canale della Manica: “Qui cade tutto a pezzi, ho paura”.
Quanto sia durata la paura nessuno può dirlo, perché i sentimenti non hanno unità di misura.

Il Piper lasciò alle 20:15 locali Nantes ed ebbe l’ultimo contatto con il controllo del traffico aereo del Baliato di Jersey alle 20:30. Si trovava a 7 miglia nautiche a nord ovest di Alderney. Alle ore 21:22 l’aereo precipitava, secondo l’Air Accidents Investigation Branch, e ne venne ritrovato il relitto soltanto giorni dopo: due cuscini da sedile su una spiaggia di Surtainville, a 40 km proprio da Alderney. Sull’aereo vi erano saliti soltanto Emiliano Sala e il pilota David Ibbotson, della cui licenza per guidare aerei si è discusso molto nei mesi successivi. La salma del secondo non è mai stata ritrovata, il corpo dell’argentino sì: ferite alla testa e al tronco, ma a ucciderlo potrebbe essere stato il monossido di carbonio respirato.

Nessuno lo sa, così come nessuno saprà mai se Emiliano fosse stato costretto o meno a salire sull’aereo, se si sapesse del malfunzionamento del velivolo e se David avesse le conoscenze sufficienti per condurlo da una nazione all’altra.
Ma sono davvero queste le risposte mancanti che fanno più male?
Forse, fa più male non poter sapere se Emiliano avrebbe portato per sempre in tasca una foto di Gabriel Omar Batistuta, il suo idolo e amuleto ogni volta che sosteneva un provino o delle visite mediche con un nuovo club. Forse, fa più male non poter dedicare un’esultanza alla famiglia che aveva e ai figli che avrebbe voluto. Forse, è più difficile addormentarsi la sera sapendo che Emiliano non suonerà più la chitarra, in assoluto la sua seconda passione dopo il calcio. E gli occhi di chi guarderanno le sue serie TV al posto suo?
La Premier League… Con quale emozione vi avrebbe giocato? L’aveva sognata per tutta la vita. Non più della Serie A, sia chiaro. Ma quella promessa l’aveva fatta ai nonni: vestire una qualsiasi casacca di una squadra tricolore e poter finalmente parlare in italiano, come a lui piaceva. Le origini le portava dentro, molto dentro. Nel cuore.


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Nessuno saprà mai quali altri sogni Sala aveva in mente. Magari li aveva detti a Nala, la sua cagnolina. Più umana di un essere umano, non ha più abbaiato. Ha aspettato che tutti potessero salutare Emiliano e si è accucciata fuori la camera ardente allestita per l’occasione. Solenne il suo muso, perché è più profondo il dolore.
Il Nantes, ultima squadra della quale Sala aveva indossato la maglia, ha ritirato per sempre il numero 9. Un anno dopo, non è cambiato niente: c’è un campo da calcio che ancora aspetta Emiliano. Si tratta del suo Stade de la Beaujoire. In occasione della sfida casalinga contro il Bordeaux, i tifosi del Nantes hanno occupato ogni ordine di posto dell’impianto per realizzare un omaggio coreografico unico all’argentino: un’intero settore con la sua immagine su uno sfondo giallo e verde, che ricorda i colori social del club. Sul terreno di gioco la sua immagine che ricopre tutto il cerchio centrale della metà campo e coriandoli e festoni per esaltare la memoria, che conserva solo ciò che vale la pena portarsi dietro.

Il Nantes ha indossato una maglia diversa, una maglia da edizione limitata. Il colore è bianco con strisce verticali celesti, per l’Argentina, la patria di Emiliano Sala. Tutti i calciatori sono scesi in campo con l’uniforme albiceleste e i profitti della vendita delle magliette saranno poi devoluti in favore dei due club argentini in cui è cresciuto l’ormai ex giocatore, tra cui Proyecto Crecer.
Attraverso un video, poi, tutti i compagni di squadra hanno dedicato un pensiero personale a Emiliano.

E’ trascorso un anno e pochi giorni dopo il primo anniversario, un altro cielo si è portato via Kobe Bryant. Un’icona dello sport mondiale di ogni tempo, non solo di quello che rappresentava, vale a dire il basket. Lo statunitense dal sorriso dolce era seduto a bordo di un elicottore con accanto sua figlia, una delle sue. L’avrà abbracciata? Cosa le avrà detto? Nemmeno questo sapremo mai. Eppure anche stavolta sembra che per nascondere un dolore ci sia stato bisogno di apporne un altro sopra, per alcuni anche più grande.
Se siamo qui a raccontarlo, vuol dire che non siamo consapevoli di quello che si prova un secondo prima del non esserci più e nemmeno possiamo immaginare dove vadano a finire tutte le anime. Ci piace pensare, nel caso di Sala, che Nala lo sappia. A lei qualcuno l’avrà detto.

Allora non ci resta che sperare che un omaggio basti per farsi notare da lassù e il coro si leva a voce un po’ più alta per far arrivare il suono oltre le nuvole. Pare che lì non faccia freddo e non si senta il gelo del vuoto. Il vuoto che lascia chi, come Emiliano, è andato via, invece di restare. Restare a farci ancora un po’ di quella bella compagnia.

di Sabrina Uccello


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El Kün – Il gol che segnerai

Avrebbe dovuto chiamarsi Lionel, e sarebbe stata davvero ironia della sorte. Tuttavia, la giurisdizione di Buenos Aires non permetteva un’ortografia differente da Leonel, e per questo fu chiamato Sergio. Sergio Leonel Agüero. Nato in un sobborgo poverissimo della capitale argentina e col rischio di non vedere mai la luce. Sua madre quasi perse la vita per metterlo al mondo, ma il destino è puntuale e deciso. Nacque con “un pan bajo el brazo”, disse il dottore. Un vecchio adagio che sta a significare che quel bambino avrebbe portato fortuna a tutta la famiglia. E casa sua aveva le fondamenta in un campo di calcio pieno di polvere. Il punto di battuta del corner era praticamente l’uscio della porta. Più tracciata di così la linea della sua vita non poteva essere.

“Il tuo miglior psicologo è ricordare i sogni che avevi da bambino”, ha consigliato una volta proprio El Kun. Ma quanto lontano si può sognare? Fin dove l’immaginazione riesce a spingersi prima di rigare l’orizzonte? Si può davvero credere a quello sta che accadendo? Sergio Agüero sta ristampando i libri di storia della Premier League con 179 gol all’attivo (nel momento in cui questo articolo è stato redatto e 251 considerate tutte le competizioni, ndr), che hanno fatto di lui lo straniero più prolifico del massimo campionato inglese, superando la leggenda Thierry Henry. Inoltre, col Manchester City ha accumulato dodici triplette personali, diventando il calciatore che ne ha messe di più a segno, più di Alan Shearer. Al momento, poi, è il quinto marcatore di sempre della Premier. 

Si potrebbe continuare, se non fosse più bello fare un passo indietro. Indietro al giorno in cui la famiglia del Kun rifiutò la Juventus, il Boca Juniors e il River Plate. Firmò il contratto con Nike e scelse l’Independiente, perché lo era letteralmente. Los Diablos Rojos rappresentavano l’unico club che ti permetteva di giocarvi pur non avendo la tessera da socio.

Chi poteva permettersela all’epoca? Suo padre no, sebbene a calcio fosse veramente bravo al punto di essere retribuito per i tornei locali. Nel giro vi era entrato anche Sergio ad appena dieci anni: sapeva fare gol e sapeva anche pararli. La fortuna di Agüero si è sempre trovata solo nelle radici del suo talento, nelle gambe. Le reti che attiravano e il carisma che ha sempre affascinato colpì anche Samuel Liberman e José María Astarloa. Per noi eretici: gli stessi che hanno curato la carriera di Diego Forlán. Dal giorno in cui videro Sergio, che aveva dieci anni, se ne innamorarono e il resto è storia nota. 

A 15 anni Agüero è divenuto il calciatore più giovane ad aver mai debuttato in Primera División. E sapete chi era al televisore a guardarlo in quel match tra Independiente e San Lorenzo? Un ragazzo che già giocava nel Barcellona, La Pulga. Leonel Messi. Fu lui a “innamorarsi” del Kun prima che Agüero lo conoscesse in un ritiro della Nazionale e gli chiedesse: “Come ti chiami?”. Ne restò stregato Leo e la storia della loro amicizia fraterna non li ha ancora visti alzare insieme una Coppa. La generazione probabilmente migliore mai sorta in Argentina, che non è mai riuscita a imporsi. Che beffa, no? La stessa di Sergio, che probabilmente, se fosse nato in un’epoca diversa, non avrebbe dovuto ascoltare Pep Guardiola dire che “Agüero non è il più forte che ho allenato, prima c’è Messi”. Messi è sempre prima ed è giusto così, ma meno giusto è che del Kun se ne parli sempre poco. Come se il talento fosse scontato, come se, risiedendo già sulle stelle, non avesse diritto a una cittadinanza onoraria anche sulla Terra. Agüero ha trascorso tutta la vita calcistica a litigare con i problemi muscolari, che ha risolto attraverso una dieta vegetariana, propostagli da un dietologo italiano. Nonostante gli stop, nonostante la luce dei riflettori in Argentina puntasse al suo collega, Agüero è più in alto di tutti con una naturalità disarmante.


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Di tutti i gol che ha segnato, proprio uno ha incrociato gli astri e reso evidente quello che per forza è stato e dovrà essere. Era il 1 marzo del 2008 e il Vicente Calderón ospitava ancora le partite dell’Atlético Madrid. Agüero divideva l’attacco con Forlán. Il Barcellona vantava ancora Messi da poter gestire a sprazzi, perché davanti c’erano Henry, Ronaldinho, Eto’o. Xavi e Iniesta ovviamente alle spalle. I blaugrana erano secondi in classifica, gli uomindi Aguirre quarti. Ma Agüero non lo sapeva, non l’hai mai saputo. Decise quel 4-2, con una prestazione che umiliò gli avversari. Due reti e due assist. La stampa il mattino dopo s’inchinò ai suoi scarpini: “Un calciatore enorme, diverso, sfacciato, indifferente davanti alle circostanza e al rivale. Tremendo col gioco di gambe, le finte, tremendo nella definizione. Tremendo Agüero, Sergio, El Kun, che ha riscattato la sua squadra quando era già morta, e ha ucciso il Barcellona“.

Quel gol è diventato quotidianità e a oltre 31 anni quelle parole stampate non hanno mai dovuto essere riscritte: Agüero ha trafitto mortalmente tutte le squadre che ha incontrato sul suo cammino. Eppure manca ancora qualcosa. Ne mancano tre: manca una Champions League, manca un Mondiale. E poi? C’è un ricordo. Aveva 17 anni e giocava la penultima partita con l’Independiente, la gara contro l’Olimpo. Un’entrata ingenua gli costò un giallo. Cinque cartellini accumulati, ergo una squalifica. Sergio avrebbe giocato l’ultima sfida la settimana successiva, prima di volare a Madrid. Il match contro il Boca Juniors. In campo si rese conto che non avrebbe avuto mai avuto la sua partita d’addio e pianse. Davanti ai compagni di squadra. Poi, più tardi si presentò lo stesso dal dischetto e sfogò la rabbia con una rete. Partì poco dopo. La gente di Avellaneda non gli avrà mai perdonato di essere andato via così presto e senza salutare. Anni dopo cercò di tornare, per aiutare la squadra a risalire in Primera. Troppo complicato, troppo costoso. Il suo giro immenso intorno al pallone sta ancora continuando. Il tempo dei sogni non è ancora arrivato. E forse, va bene anche così, Sergio. Lo dicono in Premier League i numeri, le classifiche, i record che dovrai ancora battere perché c’è chi per salire più in alto di tutti, deve saltare sempre una volta in più.

di Sabrina Uccello



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Breve storia di un sognatore

Chi è Daniel Osvaldo? L’ha detto lui, un tempo fa: “Un sognatore”. Disordinato, come la sua canzone, come la sua carriera. Non ha mai saputo dove stesse andando né dove avesse intenzione di arrivare, al punto che non si è mai reso conto di quanto e quali talenti avesse, prima di accettare che la realtà finalmente glieli mettesse di fronte. Tra un bicchiere di whisky, che è solo un piacere di qualche sera, e un concerto di Bob Dylan, ci sono state la Juventus, l’Inter, il Boca Juniors, la Roma, il Porto, l’Atalanta, la Fiorentina e la lista potrebbe proseguire ancora e passare per la Nazionale italiana. Il 7 settembre 2012, per esempio, ha siglato in azzurro una doppietta alla Bulgaria, in occasione di una gara di qualificazione ai Europei del 2012.

Dani voleva solo giocare a calcio, ma ha finito per essere il secondo oriundo dopo 50 anni a siglare due reti per l’Italia, in una gara.
Il primo fu José Altafini. Dicono, non uno sconosciuto.
Circa vent’anni a capire dove volesse arrivare Osvaldo e cosa potesse essere capace di fare, con un po’ di rabbia per l’irresistibile talento messo a dura prova da un carattere mai domo. E alla fine, solo adesso, abbiamo saputo che non voleva nient’altro, se non tornare a casa, a Lanús. Una vita in giro per l’Europa solo con l’obiettivo di essere normale, sapendo fare quello che meglio gli riesce. Normale come “il panettiere all’angolo”.
Ma il calcio è una strega che ammalia, anzi Osvaldo direbbe che è una bolla e la sua l’ha bucata con il graffio del rock and roll. La sua via d’uscita, il suo permesso di fumare una sigaretta senza il peso di dover essere un esempio o il timore di star contribuendo a una qualche apocalisse.

“Il fútbol è una bolla che ti cattura perché è attraente, ma alla fine ti rendi conto che tutto è una bugia. La gente non vive in quel modo, vive in un’altra maniera. Io preferisco stare con la maggioranza che con la gente che abita la bolla. Lì dentro niente è reale, tutto è frivolo e abbondano le persone calcolatrici”.
Ha ragione lui, ma non sapeva che tre anni dopo gli sarebbe mancato. Forse non aveva capito il potere reale di una passione, che dura più a lungo di una canzone.
Per tre anni, ogni mattina, è passato davanti al centro sportivo del Banfield, che dista solo cuatro cuadras da casa sua, e avrà pensato tutte le volte al rumore delle scarpette, al grido del gol, all’adrenalina di uno stadio.
E poi, al sogno di un padre. Dani è un sognatore, ma il suo viejo non è stato da meno. Genetica, no?


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Non che non ne avesse più, ne aveva ancora quando Osvaldo il 13 maggio del 2016 decise che quella tra Boca Juniors e Nacional sarebbe stata la sua ultima partita da calciatore. Un quarto di finale di Copa Libertadores, terminato 1-1, lui con la 9 sulle spalle.
Caratteraccio, lo sa.
Fu un litigio con l’allora tecnico degli Xeneizes, Guillermo Barros Schelotto, a fargli prendere la più drastica delle decisioni. C’è troppa vita concentrata in due decadi di carriera per sopportarla. Non tutti riescono a entrare e uscire dal mondo del calcio senza restarne fregati, senza portarsi dietro la nube tossica di pressioni che la luce della gloria ben nasconde.
Aveva la Bombonera, ma Osvaldo ha preferito il Barrio Viejo, la sua band. Chiusi i canali social il giorno dopo l’addio al calcio: voleva solo il rumore della musica, quella sua. Nessun’intervista per lungo tempo per lasciare la libertà alla gente di seguirlo nei locali meno alla moda per il suo stile, il suo flow. Persino un altro nome: Dani Stone.
Una pietra, sulla porta del passato.

De Rossi e Osvaldo in Nazionale

“C’è un momento in cui hai tutto e non dai valore a niente”, disse a Infobae e ha usato qualche dose di Rolling Stones per trovare la sua chiave di sol. Difficile però concentrarsi quando ti affacci e vedi il Florencio Sola, lo stadio del Taladro, e tuo padre vorrebbe solo vederti calciare ancora per divertirti e realizzare un sogno: dire un giorno che suo figlio segnò un gol per il Banfield, la squadra del cuore.
Ha resitito, ma il richiamo è stato troppo forte.
“Maldito orden, no va conmigo. No me quieras ordenar, mi cabeza va a estallar” (maledetto ordine, non va d’accordo con me. Non cercare di ordinarmi, la mia testa scoppierà): sono questi alcuni versi di una delle sue hit musicali. Non cerca e non vuole dare spiegazioni Osvaldo. Chiama il Banfield, ci prova. Dani accetta: a trentaquattro anni, dopo tre e mezzo d’inattività, si rimette in gioco. Tre mesi più un altro anno, per giocare un po’. Col solo obiettivo di “non infortunarmi” e vedere che succede, gettando l’orizzonte un po’ più avanti.

Il clamoroso ritorno al fútbol di Dani col Banfield.
È il 03/01/2020

Osvaldo ha già preso parte al ritiro pre-campionato con il resto della squadra al Campo de Deportes di Luis Guillón. Un po’ stanco lo è, ma non troppo da non poter strizzare la maglia intrisa di sudore, ricordando il gesto che fu dell’inarrivabile Diego Maradona. Io ci sono, il suo modo per provarlo è questo.
Prima però si è concesso un ultimo atto. Il 28 dicembre al Makena Club ha suonato e cantato, è stata la voce sul campo del Talleres de Remedios de Escalada per un incontro benefico di fondi. Un brindisi di fine anno per cominciarne uno completamente nuovo.

Dove andrà questa volta? Chissà. Per ora è tornato a casa.

di Sabrina Uccello


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Capitán presente

Esce dalla porta principale, come chi non ha nulla da nascondere. Non è accompagnato, perché non ha bisogno di scudi. Di lunedì mattina, quando la vita ha difficoltà a ricominciare. Con vestiti suoi e nessuno stemma, perché Daniele De Rossi è di tutti: è patrimonio del calcio, che vuol dire umanità.

Il Tano ha lasciato il Boca Juniors, ha lasciato il calcio. Un concetto è metafora dell’altro, anche per chi non appoggia la propria fede nell’azul y oro degli Xeneizes.
Solo sei mesi fa De Rossi aveva compiuto il viaggio all’inverso, rendedosi protagonista del trasferimento romanticamente più bello della storia del calcio. Niente muraglia cinese a Pechino e niente Burj Khalifa a Dubai: Buenos Aires, La Bombonera. Chi l’avrebbe mai detto? Il capitano della Roma lascia la patinata Europa per giungere fino alle radici del calcio, per raccogliere il significato primigenio e unico che ha questo sport. Accolto come una divinità, Daniele ha realizzato il desiderio impossibile di quel bambino che ha visto Riquelme alla tv e non riesce ancora a credere che a Barcellona non abbia dettato la sua legge.

È il 26/07/2019.
De Rossi inizia la sua seconda avventura della sua carriera.

De Rossi ha riscritto il regolamento del calcio contemporaneo e il cuore di La Boca gliel’ha riconosciuto. In fondo, quel contratto per una stagione non è stato un patto con la giustizia né un favore agli appassionati di questo sport, è stata una scelta egoistica. De Rossi voleva calcare il césped più bello al mondo, “perché mi faceva emozionare anche senza esserci mai entrato”. Se esiste da qualche parte un manuale per essere capitano, l’ha scritto El Tano in vent’anni e più d’attività calcistica, perfettamente riassunti in 165 giorni da Bostero. Solo sette partite, fermato da un infortunio e dal dolore di non essere riuscito a realizzare la rivincita del Boca sul River. Sei mesi oltreoceano che hanno raddoppiato gli anni alla Roma, quando in quella notte di Copa Libertadores con le lacrime agli occhi la hinchada non smetteva di cantare: “A Boca lo llevo en la sangre, lo llevo en el corazón”.

Chi è De Rossi? Un professionista che ha accettato di venire per sempre dopo Francesco Totti, perché la sua è stata una scelta d’amore. Un genitore, che sa rinunciare a sé stesso perché “Gaia ha 14 anni e ha bisogno di suo padre vicino. A me manca la mia famiglia e alla mia famiglia manco io”. Un sognatore perché “non pensavo di poter amare un’altra squadra quanto amo la Roma. Parte del mio cuore resta qui”. Un tifoso che ha ricevuto dalla gente del Boca più di quello che sente di aver dato. Un solo gol all’Almagro in Copa Argentina, applaudito più di una rete a La Bombonera. Un capitano perché “mi è sembrato rispettoso venire qui in conferenza e parlare alla gente in faccia. Io sono così, le cose si spiegano. Prima di cominciare ad allenarmi, mi sono riunito a cena con alcuni compagni e ho comunicato la mia decisione”.

L’improvviso addio al Boca e al calcio.
È il 06/01/2020

Mai fuori posto, nemmeno quando il 27 maggio del 2019 si è chiuso nell’abbraccio dell’Olimpico per l’ultima volta. Non c’era più spazio per lui e non ha provato a insistere, quando il rinnovo contrattuale con i giallorossi avrebbe dovuto essere il gesto di gratitudine più spontaneo per diciotto anni di onorato servizio, gli stessi della maturità. Nel calcio, però, non c’è mai posto per i “grazie”, figurarsi per un “capitan futuro”, che ha atteso il suo giorno anche quando sapeva non sarebbe arrivato più. E allora è Roma-Parma e tutta la pioggia del mondo raccolta al centro del Foro Italico. Ci prova a camminare e a parlare, Daniele. Non ce la fa, e tiene la mano di Sarah, dei suoi bambini e piange. L’aveva fatto anche il primo giorno: il 30 ottobre del 2001 all’esordio in Champions League in Roma-Anderlecht 1-1.
Di mezzo è successo di tutto: i giallorossi di Spalletti, due Coppa Italia, una Supercoppa e Germania 2006, quando l’Italia fece “azzurro il cielo sopra Berlino”. Tutta la vita sportiva a rincorrere l’ambizione di rendersi eterno, come chi resta nella memoria. Poi il tempo per pensare a sé, il tempo del Boca Juniors.
In azul y oro Daniele non ha fatto la differenza, perché non ha potuto: più di un infortunio muscolare e la delusione di non aver potuto alzare un trofeo sotto i coriandoli de La Doce.

Resta il valore della scelta compiuta e anche l’onesta di fermarsi davanti a un muro più alto della forza che resta nelle gambe.“Avrei potuto giocare quanto ancora? Fino a giugno, magari dicembre. Ma ho 36 anni e non avrei potuto proseguire per altri dieci. Allora torno a casa, da mia figlia”. Gaia, si chiama. L’angelico risultato del suo primo matrimonio, quello lampo con Tamara Pisnoli. Una storia terminata a causa di vicende violente, riguardanti la vita familiare dell’allora compagna. Non ne ha mai parlato troppo El Romano, per non tirare a galla dettagli che col tempo avrebbero finito per compromettere proprio la sua prima figlia e la serenità che cercava di dare alla sua vita.

De Rossi incontra Maradona.
È il 09/08/2019

Arriva per tutti il giorno di scegliere, per Daniele è giunto insieme al 2020. Il terz’ultimo degli eroi di Germania 2006 (resta in attività Giorgio Chiellini e Gianluigi Buffon, giocatori della Juventus) lascia il calcio giocato e un cumulo di carattere e meraviglia che aveva portato in campo con sé. L’ha annunciato quasi di sfuggita, come fosse un dettaglio trascurabile (“Lascio il Boca e quindi chiaramente anche il calcio”), perché lo spettacolo mediatico non gli è mai piaciuto. L’ultima scelta, ancora seguendo il cuore, perché De Rossi è così e ci siamo sentiti un po’ tutti Daniele, quando arrivato a Buenos Aires è stato a casa di Diego Armando Maradona con Nico Burdisso e hanno parlato di Italia, Napoli, Roma e tutto il calcio che c’è. Un ragazzo qualsiasi, che non ha mai venduto “humo” perché non ne ha mai avuto bisogno.
Solo talento, garra, professionalità. Capitano si nasce e, Lele, lo sei stato in ogni presente. Altro che futuro. Checché se ne dica.
Gracias.

di Sabrina Uccello


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Tra ilusión e saudade

Il calcio è un momento. Un gol allo scadere, un salvataggio sulla linea, un rigore sulla traversa, un tiro angolato da centrocampo, una parata in due tempi. Una collezione di situazioni che entrano a far parte del caleidoscopio della memoria di ciascuno tifoso, situazioni che finiscono sui giornali, che durano solo ventiquattro ore. Il calcio è quello che ne diremo dopo il 90′, la polemica che non finisce col termine della stagione. Il calcio è una pausa che non arriva, evoluzione costante, variazione di scenari. Cosa resta? Quello che di buono si è fatto, quello che di meglio si poteva fare.

El Lechuga Alfaro

Chi porterà Riquelme al Boca Juniors? Alfaro non ha raggiunto la dose minima di adrenalina per potersi giocare la possibilità di restare sulla panchina più ambiziosa. Mentre Schelotto andava a dirigere Ibrahimovic in MLS, l’ex tecnico dello Huracán ne prendeva il posto. Una delle ultime scelte di Angelici, presidente dimissionario degli Xeneizes. Quando aveva già puntato su tutto, non gli restava che il cuore. Quello di Alfaro. “Sento di essere alla fine della mia carriera, e quando ho ricevuto la chiamata di Angelici, ho ripensato al mio viejo. Con questa decisione sto compiendo la parola che gli avevo dato. Quando lasciai gli studi per dedicarmi al calcio, gli promisi che sarei arrivato al più alto livello possibile. Se nella carriera mi avessero ‘tradito’ come Alfaro, io, ho fatto con lo Huracán, portando utili e progressi, allora in tutta onestà sarei una persona più felice e grata. Tuttavia credo che la vita sia la somma di un serie di decisioni, e questa è la mia”.

El Gringo Heinze

E adesso chi ne prenderà il posto? Si prepara El Gringo? Heinze, la bellissima storia contemporanea del Velez Sarsfield. Se il calcio si rappresentasse a teatro, sarebbe lui l’etoile indiscussa. Un 4-3-3 che domina gli spazi e vuole sempre il pallone tra i piedi, ma è un lavoro di convinzione non di memoria. Spiegò lui stesso: “Io non impongo idee. Quello che faccio è proporre, e il calciatore è colui che sceglie se farlo o no. Quando cominci, ci sono dei calciatori che faticano ad accettare le idee, altri che rompono le scatole, altri ancora ai quali non piace ciò che fai o si trovano meglio con altri schemi. Tutto sta nel mostrare quello che fai e come farlo, questo è fondamentale. Al calciatore lo convinci lavorando e dicendogli la verità”.
Così si è quarti alla sedicesima giornata del campionato a solo due punti dalla vetta. Così i Domínguez esplodono, e fa meno male che il capitano sia andato via.

El Poroto Cubero

Se il calcio è fatto di momenti, come dicevamo, i più belli per vent’anni li ha rappresentati anche El Poroto Cubero. Il talismano di Gareca nei tre campionati vinti alla guida del Fortín (2009, 2011, 2012).
“Succedeva – raccontò un giorno Fabián – in pratica che ogni volta che io facevo un gol, noi vincevamo il campionato. Allora ogni volta il mister mi chiedeva di segnare. Non immaginate quante volte mi abbia detto ‘Quindi? Quando me lo fai un gol, così posso stare tranquillo?'”. Un difensore che a quarant’anni ha collezionato sette titoli, diciassette reti e seicentotrentatré partite.
“Togline uno qualunque e metti Cubero” hanno gridato a Heinze dagli spalti. Era l’utimo giorno, l’ultimo di Cube al José Amalfitani, contro il Colón. Un’ovazione infinita, nell’abbraccio più bello del mondo.


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El Jefe Mascherano

E per una leggenda che va, ce n’è una che torna. Un giro immenso tra diciassette trofei con la maglia del Barcelona e una tappa in Cina, a vedere che c’è dopo le colonne d’Ercole del calcio. Bentornato a casa, Jefecito. Bentornato, Mascherano. Fino a Qinhuangdao è volato il presidente Verón perché non poteva essere con la maglia dell’Argentina la loro ultima foto insieme. Lui in campo a dirigere la mediana, Verón a mettergli a disposizione l’Estudiantes e il suo nuovo stadio, tra i più moderni al mondo, e Gabi Milito a disegnare gli schemi per scendere in campo. Una sceneggiatura che sarebbe parsa troppo ambiziosa a qualunque regista. Eppure è successo, a La Plata, una delle porzioni di Terra in cui puoi sognare un desiderio che si realizza. Ha vinto tutto Mascherano eppure dopo il primo calcio all’1 y 57 davanti ai 15.000 tifosi accorsi non ha potuto evitare di dire che “Questa accoglienza è stata una delle cose più belle della mia carriera”. E non ha ancora disputato un clásico platense contro il Gimnasia con Maradona sul trono. Capita che uno ci pensa ed è subito ritorno al futuro con lo scenario di Sudafrica 2010, ma l’idea che finisca diversamente.
Dopo 15 anni Mascherano è tornato, che sarà mai attendere l’anno nuovo per vederlo in campo?

El Chacho Coudet

Un anno che vedrà la Primera División senza Chacho. Il Racing Club di Mena, Centurión, Zaracho, Lisandro López, Bou, della consacrazione di Lautaro Martínez, ma meglio ancora la squadra di Coudet. Non somigliava a nessuna e così ha vinto, fino alla fine. Al Racing è andato il Trofeo de Campeones 2019, l’ultima coppa e l’ultima partita dell’allenatore alla guida de La Academia. Di Coudet è la passione e la convinzione, come quella che nella stagione 2018-19 ha mantenuto dalla quarta all’ultima giornata di campionato il Racing primo in classifica. Una cavalcata al successo che non si è mai ripetuta e per questo la storia deve finire. Ha il suo ciclo, Coudet l’ha compiuto. A settembre la decisione di lasciare l’Argentina perché non ci sarebbe spazio dentro di lui per un altro club nazionale: “Ho scelto tre anni fa in che parte di Avellaneda stare, quindi non sarò mai l’allenatore dell’Independiente però qui tornerò qui”. Tocca all’Internacional de Porto Alegre lidiar con un loco come El Chacho.

Nostalgia, saudade? Qualcosa di simile già si avverte.

Di Sabrina Uccello


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Il potere di Román

Ognuno misura il tempo a modo suo. A Buenos Aires, ad esempio, esiste un “prima” e “dopo” Román. Nel mentre non c’è nulla se non l’attesa di rivederlo.

Dal 2015, anno del ritiro fuori casa con la maglia dell’Argentinos Juniors, El Mudo è rimasto fedele al suo soprannome: ha taciuto ed è stato a guardare gli atti finali del teatro di Daniel Angelici da presidente del Boca Juniors. Le ultime battute di un patrón senza cartucce nell’anno corrente per ripresentarsi alle urne per la direzione del club più importante del paese.
Perdere a Madrid la Copa Libertadores contro i nemici acerrimi del River Plate è stato sicuramente il momento che ha messo fine al regime regnante dell’italo-argentino.
Poi è sceso in campo Román ed il governo è caduto definitivamente. Quello di Macri, quello della sua gente che in otto anni al potere con Angelici non ha conseguito nessun titolo internazionale. Un affare non da poco per il club più titolato al mondo, insieme ad altri due (li conosciamo, no?).

Il macrismo è finito, forse addirittura dopo quella doppietta di Martín Palermo al Real Madrid, all’inizio del nuovo millennio, in Coppa Intercontinentale. A poco, anzi a nulla, è servito cercare di richiamare proprio Riquelme come partitario e simbolo della nuova campagna elettorale.
Maradona, dalla parte del candidato Gribaudo, ci aveva messo il suo accusando Román di essersi mosso solo per soldi. Un tentativo “dall’alto” di riportarlo sulla via dell’oficialismo ma non è servito a nulla.
Riquelme ha preferito rinunciare anche al suo giorno, al suo addio alla Bombonera con Messi ospite, pur di schierarsi dalla parte giusta.

Diego non lo sapeva. Pensava che il suo potere si estendesse fin sopra le nuvole. Forse è così, ma non per la porzione di cielo che avvolge Buenos Aires.
Nel 1996 Riquelme è arrivato a La Boca e ci è rimasto per sempre. L’ha portato la “gente del regime”, che poi è stata la stessa che negli anni a seguire si è rifiutata di firmargli rinnovi, arrivando a cacciarlo. Un affronto che un uomo silenzioso e di parola come Román non ha dimenticato.
Nessun litigio, muto. Come sempre. Si è seduto, ha aspettato il suo giorno ed è arrivato.
Immancabilmente.

Oltre trentotto mila soci si sono presentati alle urne per votare il nuovo presidente e il 52,8% schiacciante ha parteggiato per la giunta Ameal-Pergolini. Quella politicamente legata al nuovo presidente anche del paese, il peronista Alberto Fernández, oltre che a Riquelme.
Circa dodicimila votanti in più rispetto al 2015, quando la poltrona andò ad Angelici. Un record, come le percentuali vincenti, che hanno lasciato alle altre due fazioni la fame da spartirsi: Gribaudo fermo al 30,6% e la squadra apolitica di Beraldi capitanata da Batistuta ha raccolto le briciole del 16,4%. Quando Román si è recato in sala con la sua tessera da socio per votare, l’intervento delle forze dell’ordine è stato inevitabile.
La sensazione è che per la gente dalle 14:30 in poi di domenica fosse arrivato l’anno nuovo. La svolta.


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Riquelme non ha promesso niente che non abbia già: il Boca Juniors è della gente del popolo, non delle élite. Questo spirito, affossato dall’ultima lunga gestione, va recuperato. I soci dovranno avere più spazio, più strutture a disposizione e sarà El Último Diez l’arbitro del progetto sportivo. Lui sceglierà chi può guidare gli Xeneizes, lui opterà per i calciatori che andranno e per quelli che verranno. Sarà la faccia del campo, il collante e il magnete per gli acquisti internazionali, come quello di Daniele De Rossi, apripista di una nuova tendenza.

La politica non deve interferire e la gente da La Bombonera non deve andare via: lo stadio va implementato, rivisitato, ampliato. Non sarà rifatto da zero, non si sposterà nemmeno di una zolla ma sarà rinnovato. Sarà all’altezza del futuro che rivuole.
Non c’è nessuno che non gli creda, perché Román parla poco e mantiene tutte le promesse.
Tranne quella di Angelici, ma non c’è bisogno poi di nessuna partita d’addio: Riquelme è tornato a casa, e questa volta ci entra senza il permesso di nessuno.

Non ne avrà bisogno. Almeno per quattro anni.

Di Sabrina Uccello


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Scusate se sono il più bravo

Quante cose si possono fare in sette secondi? Tante, molte. Come scendere dall’Olimpo, atterrare al Wanda Metropolitano e rompere l’inerzia di uno 0-0 tra i comuni mortali di Barcelona e Atlético Madrid. Sette secondi e sette tocchi sono bastati a Lionel Messi per siglare un altro capolavoro dei suoi, con firma d’autore e accompagnamento musicale di Luis Suárez. Una rete che vale oro, perché a Parigi aspettavano soltanto lui. Anche stavolta.

Nell’epoca in cui anche le divinità non europee possono ambire al Ballon d’Or, assegnato da France Football, nessuno l’ha accarezzato e portato a casa più volte di lui. Cristiano Ronaldo, l’eterno sfidante, è stato il principale competitor de La Pulga in tutti questi anni di militanza in Liga. Cinque ne ha vinti il portoghese, uno in più l’argentino. 

Sempre un passo avanti lui, che al théâtre du Châtelet è ormai di casa. L’assegnazione dello scorso anno a Luka Modrić è quasi sembrata un riconoscimento doveroso alla carriera e la necessità di dare un colpo al cerchio della classifica storica. Ma Messi è sempre là: il suo genio si è svegliato un’ora prima del talento di qualsiasi altro calciatore.

¿De qué planeta viniste? Chiese un po’ a Dio e un po’ a se stesso lo scrittore e giornalista Víctor Hugo Morales, nel giorno in cui Diego Armando Maradona si strinse l’Argentina intorno alle scarpette e chiuse con il gol del secolo la pratica Inghilterra.
Messico 1986.
Quella rete concluse in favore degli Albicelestes una battaglia più politica che sportiva: delle Malvinas gli inglesi sottomisero gli abitanti originari della Patagonia, ma il loro dominio si fermò lì. In campo, infatti, esisteva una sola legge, e la dettava Maradona. Quel gol l’avranno tatuato in migliaia, milioni.
Solo Messi no, eppure dovrà farci i conti tutta la vita.

Non ha vinto i Mondiali, non ha trascinato l’Argentina, non ha segnato il gol del secolo.
Non è successo quasi niente di tutto questo, è vero. Ma qualcun altro ha vinto 36 titoli con un club e 82 riconoscimenti individuali? Senza mai fare nient’altro per “vendere” la propria immagine se non giocare come sa: tenendo il pallone incollato al piede, seguendo le linee che disegna la sfera e mai le caviglie degli avversari? Rincorrendo i due archi della porta e mai i guantoni dell’estremo difensore avversario? Avendo come unico idolo El Payaso Aimar, che in campo distribuiva eleganza in dosi di cuoio?

La classe, d’altronde, è lo standard che Messi negli anni ha portato oltre i confini della comprensione avversaria, stabilendo la legge universale secondo la quale il “Barcellona che comincia le partite 1-0 in favore”.
Che avrebbe fatto, obietta qualcuno, La Pulga se non avesse avuto il privilegio di dividere il campo con Xavi e Iniesta? E loro invece? Cosa avrebbero fatto, se nessuno fosse stato capace di convertire in punteggi la loro poesia?

Con 36 reti in 34 partite e 10 gol in 12 sfide di Champions League, Messi accompagnato dai due figli e dalla moglie Antonella tocca per la sesta volta un pallone che diventa d’oro più che mai, quando si tratta di lui.
Nessuno al mondo può vantare il suo stesso numero di Ballon d’Or.

Eppure non basterà, perché non sarà mai empatico come D10S, pieno di sé come Cristiano Ronaldo né più roccioso di van Dijk, il favorito per quest’anno.
Resterà soltanto Leo, a cui non piace troppo parlare in pubblico, in campo va a testa bassa senza proclami, finché non rotola sul verde il pallone. Resterà soltanto Leo, intorno al quale è stato costruito un fenomeno marketing che non è mai stato bravo a gestire.

Divorato dalla macchina del cerca idolo per forza, ha dovuto vestire i panni scomodi del modello da imitare. Non troppo bello né tanto alla moda. Se ne diranno sempre tante e la maglia albiceleste sarà ogni volta il pendolo che oscillerà in favore dei detrattori: “Non è stato il faro dello spogliatoio”, “Decide lui chi convocare”, “Si fa solo alla maniera sua eppure non vince”, “Maradona ha vinto da solo”, “Ha lasciato la Nazionale come nessun capitano farebbe”. Ma viveteci voi da miglior giocatore al mondo col fardello di doverlo ricordare, perché a nessuno piace ammetterlo.

Bei problemi, direte. Ed è vero, ma Leo resta pur sempre un ragazzino che voleva solo un pallone per divertirsi. Non è certo colpa sua se sa farlo, oggi, meglio di chiunque altro al mondo.

Di Sabrina Uccello


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I due minuti che hanno sconfitto il migliore

La più bella immagine di River Plate-Flamengo è la gigantografia del dolore e dell’orgoglio della squadra di Marcelo Gallardo, che non sfila la medaglia di seconda dal collo, si schiera davanti ai rivali brasiliani, e gli applaude mentre alzano al cielo la Copa Libertadores 2019, trentotto anni dopo Zico. Dopo la loro ultima volta.
Nessuna squadra poteva togliere ai campioni in carica il trofeo se non i rubro-negros, e nessuno poteva rendere così difficile il compito a Jorge Jesus se non i riverplatensi.

La prima finale unica della storia di questa competizione è stata incredibilmente giusta nella sorte che ha concesso alle due squadre in questione di arrivarvi: River Plate e Flamengo rappresentano le due espressioni massime del calcio del Nuovo Continente in questo momento, pur vivendo due storie agli antipodi: il primo schieramento è al coronamento del miglior ciclo della sua centenaria storia, il secondo sta ricominciando a meritare di avere la più numerosa e folta tifoseria che esista al mondo.
Doveroso, prima di passare in rassegna i fatti, è una duplice premessa, di cui la prima rispecchia la profonda convinzione di chi scrive: El Muñeco è il miglior allenatore in circolazione. Il River Plate ha disputato la quattordicesima finale in cinque anni. Di queste ne ha vinte dieci, mettendo fine al periodo interminabile di diciassette anni senza posizione alcuna coppa in bacheca.

La gara di Lima non è stata spettacolare quasi in nessun momento, ma l’equilibrio è sempre stato il maggior talento del River Plate dal 2014 a questa parte. I termini e il ritmo del match li ha decisi la formazione argentina, che ha sorpreso evidentemente il Flamengo. Non si sono visti gli sprazzi di luce che di solito emana il trio Bruno Henrique-Gabigol-De Arrascaeta. Il River Plate è stato praticamente sempre in superiorità numerica, ha dominato fisicamente il centrocampo avversario con Enzo Pérez ed Exequiel Palacios, chiudendo ogni linea di passaggio a Everton Ribeiro, che quasi non si è visto. Il jolly è stato De la Cruz, che ha svariato dal fronte difensivo a quello offensivo, mettendo Matías Suárez nella posizione di divenire indispensabile e sempre propositivo. Ha sognato a occhi aperti al 15′ della prima frazione di gioco Rafael Santos Borré: un’altra finale poteva essere decisa dall’intelligenza colombiana.
Dopo un ottimo torneo, a Madrid contro il Boca Juniors nella gara del secolo Borré fu assente per aver accumulato cartellini gialli, ma a colorare di cafetero il cielo del Bernabeu fu il connazionale Quintero. Quest’anno avrebbe potuto ripetersi la magia.
Pinola, poi, a trentasei anni ancora non dà calci sbiaditi al pallone: i suoi interventi hanno blindato l’arco di Armani, che non può dire di essersi preoccupato troppo.

L’errore forse è lì: il River Plate ha dominato ogni istante, ma si è poi imborghesito. Dopo il 70′ si è convinto evidentemente di aver già cucita sulla maglia la toppa di un’altra Copa, e si è rilassato al punto che Gallardo (e questo è un dato incredibilmente negativo per una hinchada sudamericana) ha dovuto chiedere a gran voce al pubblico di continuare a incitare la squadra.
La partita era morta“, dirà Enzo Pérez al termine della gara, ma mai momento fu più vivo per il Flamengo che l’89’.
Se qualcosa Jorge Jesus ha dato di indistruttibile ai brasiliani è l’anima.
Gabigol ha pagato il conto col destino e ha scritto la prima tacita regola della storia della finale unica della Libertadores: la partita finisce solo quando segna lui. Come se non fosse sazio delle 22 reti e 8 assist messi a segno in 26 partite stagionali. Con la partecipazione consueta di De Arrascaeta ha cambiato il futuro della partita a un minuto dalla fine. I quattro di recupero che ha poi concesso il cileno Tobar sono serviti solo ad aprire all’ex attaccante dell’Inter i viali della gloria.

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Un Flamengo irriconoscibile ha reso giustizia alla meravigliosa stagione condotta tra campionato locale e competizioni internazionali.
Pratto è stato solo l’alter ego del giocatore visto a Madrid l’anno scorso e i cambi sono stati fatali a Napoleón.
Due minuti affinché un solo giocatore abbattesse la sua fedele e irresistibile armata.
Gabigol è stato l’unico del Mengão a toccare la coppa all’ingresso in campo: la sfiora e poi appoggia quella stessa mano sul cuore. Non è un modo spavaldo di affrontare la malasorte di chi si avvicina al trofeo prima di vincerlo, è stata solo la sua maniera di fissare un appuntamento al quale sapeva che non sarebbe mancato. Era il 23 ottobre del 1981 il giorno in cui il Flamengo alzò al cielo la sua ultima Copa Libertadores. Un destino? Se tre indizi fanno una prova: quell’anno al Mondiale per Club il Flamengo affrontò il Liverpool, e lo stesso accadrà anche questa volta se gli uomini di Jorge Jesus dovessero vincere la prima sfida in programma.

Non si può mai scegliere come perdere né si può garantire una vittoria. Si può solo giocare nel miglior modo possibile, come ha fatto il River Plate. E sperare che l’unico errore della partita non ti costi il gol che la decide, come potrà ricordare un giorno Pinola. Non si scelgono i tempi, si gestiscono i colpi, e credere di non subirne più perché il 90′ è già arrivato, è stata la pecca del River Plate. Di sé, tempo fa, il portoghese Jorge Jesus disse: “Sono il miglior allenatore del mondo, ma questo potrò giustificarlo quando vincerò la Champions League”. Non è ancora accaduto, ma ieri sera ha portato a casa l’equivalente in America. In pochi minuti è diventato il secondo allenatore europeo a poter raccontare questa storia. Prima di lui a vincere la Libertadores ci era riuscito soltanto il croata Jozic nel 1991, guidando i cileni del Colo-Colo.
Difficile dire se la misura di un trofeo sia abbastanza grande per contenere le capacità di un allenatore fino a definirlo il più grande di tutti. Forse i numeri non bastano: forse per definirsi migliore serve anche il corteo di tifosi del River Plate, che ha raggiunto la squadra in hotel e le ha applaudito. Nonostante tutto, nonostante il dolore. Forse serve che il goleador della gara dica nel post-partita, con ancora le lacrime agli occhi: “Desideravo tanto parlare con Gallardo, ma non ci sono riuscito. Sono un suo tifoso, volevo fargli i complimenti perché ha una squadra fortissima, l’unica probabilmente ad averci messo in difficoltà. Un allenatore straordinario“.

Ci sono molti modi di vincere, quasi tutti meritati e comprensibili; ce ne sono altrettanti di perdere, ma solo Gallardo riesce a farlo conservando ogni frammento d’orgoglio.

Di Sabrina Uccello


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